domenica 28 agosto 2016

LA MUTA (La festa dei Ceri) - Racconto di Fiorinto Cuppone




foto inviata da Fiorinto Cuppone


LA MUTA

Di
Fiorinto Cuppone

L’aria è pervasa dalla fragranza delle ginestre e dal profumo delicato delle rose selvatiche che ci accompagna mentre ci inerpichiamo per gli stradoni del monte Ingino. Le punte dei cipressi ed il disco del sole paiono giocare tra loro a rimpiattino, e a tratti lame di luce abbagliante sembrano volerci accecare.
È il giorno della Festa dei Ceri a Gubbio, è il 15 di maggio. Lungo i tornanti polverosi del monte mi accompagnano mio figlio, mio nipote e la sua fidanzata; non abbiamo una mèta precisa. I ceri sostano alla porta di S. Ubaldo all’interno delle mura cittadine medioevali, nell’attesa che i ceraioli, via via salendo lungo il monte, predispongano le mute[1] fino alla Basilica dedicata al Santo protettore della città, S. Ubaldo.
Giunti al penultimo stradone, quello più lungo, decidiamo di fermarci; sul lato verso monte c’è un gigantesco ghiaione che scende giù dalla montagna, è quasi privo di vegetazione e questo ci permetterà di avere un’eccellente visuale su tutto il percorso, dalla curva secca che ne è l’inizio, fino quasi all’imbocco dell’ultimo stradone.
Saliamo in fretta sulla pietraia e ci sediamo in un punto dove sembra appianarsi. La fiumana di gente continua ad affluire diretta alla sommità del monte, sembra un gigantesco serpente colorato. Sotto di noi si sta formando la muta del cero di S. Giorgio, il mio cero.
 A un tratto sento una voce, che mi è familiare, chiamarmi:
“Fiorì, gliela diamo la spallata quest’anno al cero?
Cerco tra la folla e riconosco subito il Grelletto un caro amico d’infanzia; quante sfide a costa muro con le figurine Panini abbiamo fatto, quanti interminabili pomeriggi passati a giocare a calcio sulla piazzetta di S. Giovanni, a giocare a tre tre giù giù, ai quattro cantoni, a nascondino.
“Credo che quest’anno i Ceri bisognerà accontentarsi di guardarli passare”, rispondo. “Fermati Grelletto che scambiamo due parole”.
“No, no, voglio arrivare in cima al monte”.
“Perché?”
“Fiorì, me lo sento, quest’anno con il cero di S. Giorgio arriviamo nella Basilica insieme al cero di S. Ubaldo e non me lo voglio perdere”
“Ma non dire castronerie, per quel che mi ricordo io, sarà successo una volta o due in tutta la mia vita”
“Ti dico che me lo sento, stavolta arriviamo insieme. Ciao”
Vedo allontanarsi tra la calca delle persone la sua testa, un tempo bionda, e oggi imbiancata dagli anni. Ne è passato di tempo da quando venivamo sul monte attaccati alla mano della mamma o del babbo. Noi stiamo attraversando un momento della vita in cui si cominciano a tirare le somme, a indagare sul percorso che abbiamo fatto, a fare un bilancio delle fantasticherie della nostra infanzia che siamo riusciti a realizzare, ed i desideri rimasti inappagati. Ciò che non siamo riusciti ad ottenere è dipeso dalla nostra incapacità? Al caso? All’inesperienza? Si ripensa agli errori commessi forse dettati dall’inesperienza e che avremmo potuto evitare; avessimo avuto allora l’esperienza della vita che abbiamo adesso!
Già, l’esperienza. Da ragazzi, quando sbagliavamo, alle volte gli adulti ci riprendevano:
“Ragazzi siete in gamba, ma vi manca ancora l’esperienza della vita”. Allora ci domandavamo increduli: “Ma che sarà mai quest’esperienza”.
Ora che anch’io ho i capelli ingrigiti dagli anni so bene cos’è l’esperienza. Se sei un professionista e stai trattando con un nobile o con una persona importante, costui desidera che tu instauri un rapporto impersonale basato unicamente sugli aspetti tecnici della questione, dimostrando di avere una conoscenza approfondita ed accurata della cosa, perché è gente abituata a soppesare chi gli sta di fronte. Se invece hai a che fare con una persona semplice, ti devi preoccupare di vincere la sua probabile diffidenza verso coloro che sono istruiti, ed allora una pacca sulle spalle è la soluzione migliore per instaurare un rapporto di fiducia reciproca.
La mia mente sembra oggi voler andare per i fatti suoi, i pensieri mi si accavallano furiosi, sembrano una pariglia di cavalli imbizzarriti. Dallo stradone sento arrivare un richiamo:
“Te la senti di fare da bracciere?”
Non mi sembra vero, ecco l’occasione giusta per uscire da questo turbinio di pensieri; non me lo faccio dire due volte e di slancio scendo lungo la pietraia.
Il ceraiolo che sembra organizzare la muta mi squadra con attenzione dal capo ai piedi, e poi mi fa: “Farai da bracciere al ceppo davanti” e mi indica un giovane, forse trentenne, tarchiato come un torello, con la fronte madida di sudore ed i capelli a riccioli neri incollati dalla polvere alla pelle, occhi neri e profondi.  È evidente che ha già portato il cero giù in città.  Ci facciamo un cenno d’intesa.
Rivolgo lo sguardo su verso il ghiaione e mio figlio mi osserva preoccupato; più in alto una donna mi scruta anch’essa interdetta, sembra di cogliere un suo pensiero che mi riguarda: “Ma cosa si è messo in testa di fare quello lì, oggi?”
Il bracciere della punta davanti, che sta qualche metro più in alto sullo stradone è Gioacchino, che ha, seppur di poco, un’età maggiore della mia. “Se pensa di farcela lui, posso benissimo farcela anch’io”, mi viene da pensare.
Oramai la manicchia[2] è pronta e si comincia ad aspettare con un po’ di ansia e di tensione l’arrivo dei Ceri. Ad un tratto si sentono delle grida lontane.
“Sono partiti, sono loro” mi si rivolge concitato Gioacchino.
“No, non credo. Se i Ceri fossero partiti, avremmo dovuto sentire il segnale di partenza dato dal suono del campanone del Palazzo dei Consoli”, rispondo.
Non finisco di parlare che giungono fino a noi i rintocchi del campanone: “ni-na ni-na, bom, bom, bom; ni-na ni-na, bom, bom, bom”.
“Sì, sì, son loro, sono partiti”, rifà Gioacchino. Ora si avverte uno strano silenzio; le file di cipressi che ornano gli stradoni del monte fanno a tratti da schermo sonoro.
Pur se fai parte di una manicchia, di una muta, ora ti rendi conto che in realtà sei da solo con te stesso. Avverti che dentro di te qualcosa sta cambiando: hai l’impressione che una mano ignota abbia pigiato un pulsante di un tuo interruttore interno, è come se la mano avesse azionato una leva che mette in moto dei meccanismi involontari, nei riguardi dei quali non hai alcun potere decisionale. Entra in azione l’ipotalamo, quell’arcaico grumo di cellule neuronali che possedevamo già quando ancora assomigliavamo ad un topo ragno, le più antiche del nostro cervello.  E parrebbe che quasi si rivolgano alle altre cellule del cervello in questi termini: “Giovani cellule neuronali degli encefali, che sembrate assomigliare ad un ammasso di panna montata, fatevi da parte. Le situazioni di pericolo e di tensione emotiva sono di mia diretta competenza, sono milioni di anni che le affronto, so bene cosa si deve fare, come bisogna gestirle”.
All’improvviso, come d’incanto, la confusione che mi circonda sparisce; mi sembra di udire solo i rumori ed i suoni che mi sono utili. Il cuore inizia a pulsare con vigore, come un potente metronomo, irrora di linfa preziosa tutto l’organismo; la mandibola si serra alla mascella e gli occhi divengono vigili. Al tuo interno, come nel condotto di un vulcano spento risale la lava incandescente, così senti montare della nuova energia, prima sopita, e sai che presto ti sarà utile.
Si sentono di nuovo delle grida, stavolta più vicine, e poi di nuovo nulla.
Passano il Trombettiere ed i due Capitani al galoppo, ormai i tre Ceri dovrebbero essere prossimi a noi. Finché un boato gioioso squarcia l’aria.
“Gioacchino io non vedo niente, tu li hai visti i Ceri? “
“Ho visto spuntare tra le cime dei cipressi la mantellina gialla del santino di S. Ubaldo. Ora son proprio sotto di noi, nel terzo stradone”
Volgo lo sguardo alla pietraia per l’ultima volta e vedo mio figlio che si è tranquillizzato, ha fiducia in suo padre; con il ceppo davanti ci facciamo un ultimo cenno d’intesa, forse un estremo augurio che tutto vada bene.
Ho sempre considerato i Ceri come l’elegia della forza fisica sana, del vigore e dell’incoscienza giovanili; nella loro eterna giovinezza scandiscono il tempo della nostra vita. I Ceri sono secoli che percorrono immutati nel loro splendore questi stradoni polverosi, mentre per noi gli anni trascorrono inesorabili. L’attaccamento degli eugubini a questa festa è talmente grande che durante gli anni della guerra, in mancanza degli uomini perché richiamati alla leva, non si interruppe la tradizione e furono le donne a mantenerla viva, a portare a spalla i tre Ceri fin su, in cima al monte.
La Festa dei Ceri è una festa folcloristico-rituale, anche se molti la chiamano impropriamente “la Corsa dei Ceri”. In una corsa vince chi è più veloce e di conseguenza arriva primo; la festa dei Ceri invece è un rito che tutti gli anni si ripete allo stesso modo: parte per primo S. Ubaldo e se cade gli altri due devono aspettare che si rialzi e non possono superarlo. Se cade S. Giorgio che parte in seconda posizione, S. Ubaldo può continuare indisturbato la sua corsa, mentre S. Antonio deve aspettare. Se infine cade S. Antonio che è il terzo, gli altri due Ceri proseguono imperterriti nella loro corsa.
Come un lampo, all’improvviso, in fondo allo stradone compare il cero di S. Ubaldo; appena fatta la curva, fa una penduta[3] paurosa e poi cade in terra di schianto. Noi della muta di S. Giorgio esultiamo felici. Mi è sempre apparso un mistero imperscrutabile, il motivo per cui noi esseri umani sappiamo gioire delle disgrazie altrui.
Ah, curva maledetta!
Ricordo che da bambino avevo portato il cero piccolo di S. Antonio da Capodieci, colui che guida il cero, proprio in quel tratto; e siccome sapevo di dover affrontare quella curva in contropendenza, mi raccomandai con gli amici della manicchia di non tagliarla troppo presto, altrimenti il cero si sarebbe sbilanciato verso l’esterno, il peso sarebbe diventato insopportabile, con la conseguente caduta.
Quella volta filò tutto liscio.
I ceraioli di S. Ubaldo sono commoventi nel loro desiderio di riscatto, imperterriti risollevano il cero come se nulla fosse accaduto e ripartono di buona lena, ma alle loro spalle si staglia la sagoma del cero di S. Giorgio. In poche decine di secondi arriva in prossimità della nostra muta il cero di S. Ubaldo che passa come una furia, subito appresso c’è il mio Santo. Vedo entrare bene sotto al cero il ceppo davanti, lo inseguo per qualche metro e poi entro anch’io, lo cingo ai fianchi con il braccio e lo spingo contro la stanga.
Appena entrato sotto il peso del cero rimugino: “Il cambio della muta è andato bene, questo è già di buon auspicio”.
L’ingresso di una nuova muta è uno dei momenti più pericolosi, vi deve essere un perfetto sincronismo in corsa tra chi esce e chi subentra, altrimenti, se restano dei vuoti lungo le stanghe – perché qualche ceraiolo non è riuscito ad entrare –, il peso che devono sopportare gli altri diventa insostenibile ed inevitabilmente il cero cade in terra.Il cero, questa macchina di legno imponente alta più di tre metri e del peso di oltre quattro quintali, ti cambia la percezione che hai del mondo.
La forza di gravità, che ci tiene con i piedi ben piantati in terra, intuita e la cui esistenza fu dimostrata da quel genio di Isacco Newton, non è “una generica forza applicata al baricentro di un corpo”: sotto il cero, ti rendi conto che è applicata ad ogni particella del tuo essere. Non solo: hai l’impressione che sia avvenuta una metamorfosi, che la tua carne, le tue ossa, il tuo sangue siano diventati all’improvviso di piombo, per quanto enorme è il peso che il cero ti trasmette.
Il tempo sembra dilatarsi all’infinito, la muta che ti deve dare il cambio pare che non arrivi mai; lo spazio sembra invece contrarsi, annaspi affannato ed hai l’impressione che quasi non ti sei mosso, ma quando esci da sotto il cero ti rendi conto che hai percorso qualche decina di metri.



Di colpo sento le mie gambe piegarsi sotto il peso del cero.
Urlo: “No, no, Sant’Iddio, dobbiamo farcela” e spingo il ceppo davanti con maggiore veemenza contro la stanga. Mentre corro a testa china penso a quello che potrebbe essere accaduto.
“Forse il cero ha penduto e tutto il peso è venuto dalla nostra parte”.
Alzo la testa per vedere dov’è la muta che ci deve dare il cambio, ma sconsolato osservo che di essa non vi è traccia. Sento di nuovo le gambe flettersi sotto il peso eccessivo, il cero sta dondolando sopra le nostre spalle; non è facile mantenerlo in perfetto equilibrio.
Alzo di nuovo la testa ed ora intravedo l’azzurro come il mare del camice dei ceraioli di S. Giorgio ed il rosso come il sangue dei loro fazzolettoni, la nostra muta.
Ancora pochi istanti e sento che qualcuno mi strappa da dietro, da sotto il cero, è il momento più bello; ce l’abbiamo fatta finalmente. C’è qualcuno che come noi desidera fare la stessa cosa, ha gli stessi nostri ideali, la nostra stessa fede e devozione. Mi appoggio con la schiena ad un tronco di cipresso mentre il cuore impazzito per lo sforzo, sembra voglia uscire dal petto.
Dopo un po’ sopraggiunge il cero di S. Antonio che era rimasto indietro rispetto agli altri due. Distrutto dalla fatica, mi sento chiamare da mio nipote.
Fedé: “Zio, va tutto bene?”
Fiorì: “Tutto Ok. Come siamo andati?”
Fedé. “Siete rimasti incollati al cero di S. Ubaldo per tutto il tragitto, pensavo che potevate addirittura ammanicchiarlo”.
Fiorì: “Chissà se siamo riusciti a restare attaccati a S. Ubaldo fino ai piedi della Basilica”.
Fedé: “Se non siete caduti nell’ultimo stradone, penso proprio di sì”.
Fiorì: “Anche se fossimo arrivati ammanicchiati, i ceraioli di S. Ubaldo troverebbero comunque degli stratagemmi per non farci entrare insieme”.
Lucia: “Noi andiamo alla basilica per riportare in città i tre santi con gli altri ceraioli”.
Fiorì: “Andate, andate, io vi aspetto qui sulla via del ritorno”.
Non so per quanto tempo sono rimasto lì a recuperare le energie, so soltanto che ad un tratto ho sentito il canto festoso dei ceraioli di S. Giorgio che tornavano giù dal monte:

“Se ti dicono che siam morti, che siam morti,
diie de no, diie de no;
se ti dicon che siam chiusi in una tomba, in una tomba,
dje de no, dje de no;
con San Giorgio a suon di tromba,
ci richiama, ci richiama a guerreggiar:
Alé San Giorgio, alé San Giorgio”

Fiorì: “Com’è andata ragazzi?”
Ceraiolo “Siamo riusciti ad entrare nella Basilica insieme a S. Ubaldo”.
Fiorì: “Incredibile, siete stati in gamba ragazzi. E come avete fatto?”
Ceraiolo: “Siamo arrivati in fondo alla scalinata della Basilica, ammanicchiati a S. Ubaldo: le stanghe del nostro cero sopra le stanghe del loro. Quando hanno ribaltato il cero per farlo passare nel portone della Basilica, anche noi abbiamo fatto presto e gli abbiamo messo il cero di S. Giorgio sopra a quello di S. Ubaldo. Non ti dico niente, sono incominciate le scazzottate, non volevano farci entrare insieme a loro. Ma dopo si sono rassegnati e hanno portato il cero di S. Giorgio dentro la Basilica insieme al loro cero”.
Devo confessare che ho un rapporto personale ed intimo con la Festa dei Ceri.
Alla metà del 1900 l’Umbria centrale era una landa desolata, vi si svolgeva solo attività agricola con modalità arcaiche e non ancora meccanizzata; gli uomini di Gubbio, Gualdo Tadino e Nocera Umbra, per trovare lavoro emigrarono in Lussemburgo, Belgio e Francia. La stessa scelta fecero i miei genitori, mio padre ebbe il lavoro in una fonderia in Francia, a Villerupt ove io nacqui.
Tornammo in Italia che avevo l’età di cinque anni. Perdendo in un sol colpo tutta quella che era stata la mia vita fino ad allora: gli amici, la mia scuola ed i miei giocattoli, ero molto amareggiato. Mia madre, nel vedermi in quella condizione, cercava di rincuorarmi:
“Fiorì, vedrai che tra qualche giorno ci sarà una festa bellissima a Gubbio”.
Al ché rispondevo inconsolabile: “Di quella festa, a me non me ne importa niente, mamma”.
“Vedrai, vedrai, l’Italia è più bella della Francia”.
Forse anche per questo, al mattino  di ogni 15 di maggio, quando in Piazza Grande a Gubbio sento il suono squillante e gioioso delle chiarine che annunziano l’inizio della Festa dei Ceri, seguito dai rintocchi vibranti del campanone del Palazzo dei Consoli, ripensando a quegli anni ormai lontani, immancabilmente mi commuovo.




[1] Muta nel senso di cambio. Durante una muta, i ceraioli con i loro braccieri si avvicendano a turno sotto alle stanghe che sostengono il Cero.
[2] Manicchia = qui sinonimo di muta, gruppetto del cambio.
[3] Grave oscillazione del Cero che pende, col rischio di rovinare a terra.