foto inviata da Fiorinto Cuppone |
LA MUTA
Di
Fiorinto Cuppone
L’aria è pervasa dalla fragranza delle ginestre e dal
profumo delicato delle rose selvatiche che ci accompagna mentre ci inerpichiamo
per gli stradoni del monte Ingino. Le punte dei cipressi ed il disco del sole paiono
giocare tra loro a rimpiattino, e a tratti lame di luce abbagliante sembrano
volerci accecare.
È il giorno della Festa dei Ceri a Gubbio, è il 15 di
maggio. Lungo i tornanti polverosi del monte mi accompagnano mio figlio, mio
nipote e la sua fidanzata; non abbiamo una mèta precisa. I ceri sostano alla
porta di S. Ubaldo all’interno delle mura cittadine medioevali, nell’attesa che
i ceraioli, via via salendo lungo il monte, predispongano le mute[1] fino
alla Basilica dedicata al Santo protettore della città, S. Ubaldo.
Giunti al penultimo stradone, quello più lungo,
decidiamo di fermarci; sul lato verso monte c’è un gigantesco ghiaione che
scende giù dalla montagna, è quasi privo di vegetazione e questo ci permetterà di
avere un’eccellente visuale su tutto il percorso, dalla curva secca che ne è
l’inizio, fino quasi all’imbocco dell’ultimo stradone.
Saliamo in fretta sulla pietraia e ci sediamo in un
punto dove sembra appianarsi. La fiumana di gente continua ad affluire diretta
alla sommità del monte, sembra un gigantesco serpente colorato. Sotto di noi si
sta formando la muta del cero di S. Giorgio, il mio cero.
A un tratto sento una voce, che mi è familiare,
chiamarmi:
“Fiorì,
gliela diamo la spallata quest’anno al cero?
Cerco tra la folla e riconosco subito il Grelletto un
caro amico d’infanzia; quante sfide a costa muro con le figurine Panini abbiamo
fatto, quanti interminabili pomeriggi passati a giocare a calcio sulla
piazzetta di S. Giovanni, a giocare a tre tre giù giù, ai quattro cantoni, a
nascondino.
“Credo che quest’anno i Ceri bisognerà accontentarsi
di guardarli passare”, rispondo. “Fermati Grelletto che scambiamo due parole”.
“No, no, voglio arrivare in cima al monte”.
“Perché?”
“Fiorì, me lo sento, quest’anno con il cero di S.
Giorgio arriviamo nella Basilica insieme al cero di S. Ubaldo e non me lo voglio
perdere”
“Ma non dire castronerie, per quel che mi ricordo io,
sarà successo una volta o due in tutta la mia vita”
“Ti dico che me lo sento, stavolta arriviamo insieme.
Ciao”
Vedo allontanarsi tra la calca delle persone la sua testa,
un tempo bionda, e oggi imbiancata dagli anni. Ne è passato di tempo da quando
venivamo sul monte attaccati alla mano della mamma o del babbo. Noi stiamo
attraversando un momento della vita in cui si cominciano a tirare le somme, a
indagare sul percorso che abbiamo fatto, a fare un bilancio delle
fantasticherie della nostra infanzia che siamo riusciti a realizzare, ed i
desideri rimasti inappagati. Ciò che non siamo riusciti ad ottenere è dipeso
dalla nostra incapacità? Al caso? All’inesperienza? Si ripensa agli errori
commessi forse dettati dall’inesperienza e che avremmo potuto evitare; avessimo
avuto allora l’esperienza della vita che abbiamo adesso!
Già, l’esperienza. Da ragazzi, quando sbagliavamo,
alle volte gli adulti ci riprendevano:
“Ragazzi siete in gamba, ma vi manca ancora
l’esperienza della vita”. Allora ci domandavamo increduli: “Ma che sarà mai
quest’esperienza”.
Ora che anch’io ho i capelli ingrigiti dagli anni so
bene cos’è l’esperienza. Se sei un professionista e stai trattando con un
nobile o con una persona importante, costui desidera che tu instauri un
rapporto impersonale basato unicamente sugli aspetti tecnici della questione, dimostrando
di avere una conoscenza approfondita ed accurata della cosa, perché è gente
abituata a soppesare chi gli sta di fronte. Se invece hai a che fare con una
persona semplice, ti devi preoccupare di vincere la sua probabile diffidenza
verso coloro che sono istruiti, ed allora una pacca sulle spalle è la soluzione
migliore per instaurare un rapporto di fiducia reciproca.
La mia mente sembra oggi voler andare per i fatti
suoi, i pensieri mi si accavallano furiosi, sembrano una pariglia di cavalli
imbizzarriti. Dallo stradone sento arrivare un richiamo:
“Te la senti di fare da bracciere?”
Non mi sembra vero, ecco l’occasione giusta per uscire
da questo turbinio di pensieri; non me lo faccio dire due volte e di slancio
scendo lungo la pietraia.
Il ceraiolo che sembra organizzare la muta mi squadra
con attenzione dal capo ai piedi, e poi mi fa: “Farai da bracciere al ceppo
davanti” e mi indica un giovane, forse trentenne, tarchiato come un torello,
con la fronte madida di sudore ed i capelli a riccioli neri incollati dalla
polvere alla pelle, occhi neri e profondi.
È evidente che ha già portato il cero giù in città. Ci facciamo un cenno d’intesa.
Rivolgo lo sguardo su verso il ghiaione e mio figlio
mi osserva preoccupato; più in alto una donna mi scruta anch’essa interdetta,
sembra di cogliere un suo pensiero che mi riguarda: “Ma cosa si è messo in testa
di fare quello lì, oggi?”
Il bracciere della punta davanti, che sta qualche
metro più in alto sullo stradone è Gioacchino, che ha, seppur di poco, un’età
maggiore della mia. “Se pensa di farcela lui, posso benissimo farcela anch’io”,
mi viene da pensare.
Oramai la manicchia[2] è
pronta e si comincia ad aspettare con un po’ di ansia e di tensione l’arrivo
dei Ceri. Ad un tratto si sentono delle grida lontane.
“Sono partiti, sono loro” mi si rivolge concitato
Gioacchino.
“No, non credo. Se i Ceri fossero partiti, avremmo
dovuto sentire il segnale di partenza dato dal suono del campanone del Palazzo
dei Consoli”, rispondo.
Non
finisco di parlare che giungono fino a noi i rintocchi del campanone: “ni-na ni-na, bom, bom, bom; ni-na ni-na,
bom, bom, bom”.
“Sì, sì, son loro, sono partiti”, rifà Gioacchino. Ora
si avverte uno strano silenzio; le file di cipressi che ornano gli stradoni del
monte fanno a tratti da schermo sonoro.
Pur se fai parte di una manicchia, di una muta, ora ti
rendi conto che in realtà sei da solo con te stesso. Avverti che dentro di te
qualcosa sta cambiando: hai l’impressione che una mano ignota abbia pigiato un
pulsante di un tuo interruttore interno, è come se la mano avesse azionato una
leva che mette in moto dei meccanismi involontari, nei riguardi dei quali non
hai alcun potere decisionale. Entra in azione l’ipotalamo, quell’arcaico grumo
di cellule neuronali che possedevamo già quando ancora assomigliavamo ad un
topo ragno, le più antiche del nostro cervello. E parrebbe che quasi si rivolgano alle altre
cellule del cervello in questi termini: “Giovani cellule neuronali degli
encefali, che sembrate assomigliare ad un ammasso di panna montata, fatevi da
parte. Le situazioni di pericolo e di tensione emotiva sono di mia diretta
competenza, sono milioni di anni che le affronto, so bene cosa si deve fare,
come bisogna gestirle”.
All’improvviso, come d’incanto, la confusione che mi
circonda sparisce; mi sembra di udire solo i rumori ed i suoni che mi sono
utili. Il cuore inizia a pulsare con vigore, come un potente metronomo, irrora
di linfa preziosa tutto l’organismo; la mandibola si serra alla mascella e gli
occhi divengono vigili. Al tuo interno, come nel condotto di un vulcano spento
risale la lava incandescente, così senti montare della nuova energia, prima sopita,
e sai che presto ti sarà utile.
Si sentono di nuovo delle grida, stavolta più vicine,
e poi di nuovo nulla.
Passano il Trombettiere ed i due Capitani al galoppo,
ormai i tre Ceri dovrebbero essere prossimi a noi. Finché un boato gioioso
squarcia l’aria.
“Gioacchino io non vedo niente, tu li hai visti i Ceri?
“
“Ho visto spuntare tra le cime dei cipressi la
mantellina gialla del santino di S. Ubaldo. Ora son proprio sotto di noi, nel
terzo stradone”
Volgo lo sguardo alla pietraia per l’ultima volta e
vedo mio figlio che si è tranquillizzato, ha fiducia in suo padre; con il ceppo
davanti ci facciamo un ultimo cenno d’intesa, forse un estremo augurio che
tutto vada bene.
Ho sempre considerato i Ceri come l’elegia della forza
fisica sana, del vigore e dell’incoscienza giovanili; nella loro eterna
giovinezza scandiscono il tempo della nostra vita. I Ceri sono secoli che
percorrono immutati nel loro splendore questi stradoni polverosi, mentre per
noi gli anni trascorrono inesorabili. L’attaccamento degli eugubini a questa
festa è talmente grande che durante gli anni della guerra, in mancanza degli
uomini perché richiamati alla leva, non si interruppe la tradizione e furono le
donne a mantenerla viva, a portare a spalla i tre Ceri fin su, in cima al monte.
La Festa dei Ceri è una festa folcloristico-rituale,
anche se molti la chiamano impropriamente “la Corsa dei Ceri”. In una corsa
vince chi è più veloce e di conseguenza arriva primo; la festa dei Ceri invece
è un rito che tutti gli anni si ripete allo stesso modo: parte per primo S.
Ubaldo e se cade gli altri due devono aspettare che si rialzi e non possono
superarlo. Se cade S. Giorgio che parte in seconda posizione, S. Ubaldo può
continuare indisturbato la sua corsa, mentre S. Antonio deve aspettare. Se
infine cade S. Antonio che è il terzo, gli altri due Ceri proseguono imperterriti
nella loro corsa.
Come un lampo, all’improvviso, in fondo allo stradone
compare il cero di S. Ubaldo; appena fatta la curva, fa una penduta[3]
paurosa e poi cade in terra di schianto. Noi della muta di S. Giorgio esultiamo
felici. Mi è sempre apparso un mistero imperscrutabile, il motivo per cui noi
esseri umani sappiamo gioire delle disgrazie altrui.
Ah, curva maledetta!
Ricordo che da bambino avevo portato il cero piccolo
di S. Antonio da Capodieci, colui che guida il cero, proprio in quel tratto; e
siccome sapevo di dover affrontare quella curva in contropendenza, mi
raccomandai con gli amici della manicchia di non tagliarla troppo presto,
altrimenti il cero si sarebbe sbilanciato verso l’esterno, il peso sarebbe
diventato insopportabile, con la conseguente caduta.
Quella volta filò tutto liscio.
I ceraioli di S. Ubaldo sono commoventi nel loro
desiderio di riscatto, imperterriti risollevano il cero come se nulla fosse
accaduto e ripartono di buona lena, ma alle loro spalle si staglia la sagoma
del cero di S. Giorgio. In poche decine di secondi arriva in prossimità della
nostra muta il cero di S. Ubaldo che passa come una furia, subito appresso c’è
il mio Santo. Vedo entrare bene sotto al cero il ceppo davanti, lo inseguo per
qualche metro e poi entro anch’io, lo cingo ai fianchi con il braccio e lo
spingo contro la stanga.
Appena entrato sotto il peso del cero rimugino: “Il
cambio della muta è andato bene, questo è già di buon auspicio”.
L’ingresso di una nuova muta è uno dei momenti più
pericolosi, vi deve essere un perfetto sincronismo in corsa tra chi esce e chi
subentra, altrimenti, se restano dei vuoti lungo le stanghe – perché qualche
ceraiolo non è riuscito ad entrare –, il peso che devono sopportare gli altri
diventa insostenibile ed inevitabilmente il cero cade in terra.Il cero, questa
macchina di legno imponente alta più di tre metri e del peso di oltre quattro quintali,
ti cambia la percezione che hai del mondo.
La forza di gravità, che ci tiene con i piedi ben
piantati in terra, intuita e la cui esistenza fu dimostrata da quel genio di
Isacco Newton, non è “una generica forza applicata al baricentro di un corpo”: sotto
il cero, ti rendi conto che è applicata ad ogni particella del tuo essere. Non solo:
hai l’impressione che sia avvenuta una metamorfosi, che la tua carne, le tue
ossa, il tuo sangue siano diventati all’improvviso di piombo, per quanto enorme
è il peso che il cero ti trasmette.
Il tempo sembra dilatarsi all’infinito, la muta che ti
deve dare il cambio pare che non arrivi mai; lo spazio sembra invece contrarsi,
annaspi affannato ed hai l’impressione che quasi non ti sei mosso, ma quando
esci da sotto il cero ti rendi conto che hai percorso qualche decina di metri.
Di colpo sento le mie gambe piegarsi sotto il peso del
cero.
Urlo: “No, no, Sant’Iddio, dobbiamo farcela” e spingo
il ceppo davanti con maggiore veemenza contro la stanga. Mentre corro a testa
china penso a quello che potrebbe essere accaduto.
“Forse
il cero ha penduto e tutto il peso è venuto dalla nostra parte”.
Alzo la testa per vedere dov’è la muta che ci deve
dare il cambio, ma sconsolato osservo che di essa non vi è traccia. Sento di
nuovo le gambe flettersi sotto il peso eccessivo, il cero sta dondolando sopra
le nostre spalle; non è facile mantenerlo in perfetto equilibrio.
Alzo di nuovo la testa ed ora intravedo l’azzurro come
il mare del camice dei ceraioli di S. Giorgio ed il rosso come il sangue dei loro
fazzolettoni, la nostra muta.
Ancora pochi istanti e sento che qualcuno mi strappa
da dietro, da sotto il cero, è il momento più bello; ce l’abbiamo fatta
finalmente. C’è qualcuno che come noi desidera fare la stessa cosa, ha gli
stessi nostri ideali, la nostra stessa fede e devozione. Mi appoggio con la
schiena ad un tronco di cipresso mentre il cuore impazzito per lo sforzo, sembra
voglia uscire dal petto.
Dopo un po’ sopraggiunge il cero di S. Antonio che era
rimasto indietro rispetto agli altri due. Distrutto dalla fatica, mi sento
chiamare da mio nipote.
Fedé: “Zio, va tutto bene?”
Fiorì: “Tutto Ok. Come siamo andati?”
Fedé. “Siete rimasti incollati al cero di S. Ubaldo
per tutto il tragitto, pensavo che potevate addirittura ammanicchiarlo”.
Fiorì: “Chissà se siamo riusciti a restare attaccati a
S. Ubaldo fino ai piedi della Basilica”.
Fedé: “Se non siete caduti nell’ultimo stradone, penso
proprio di sì”.
Fiorì: “Anche se fossimo arrivati ammanicchiati, i
ceraioli di S. Ubaldo troverebbero comunque degli stratagemmi per non farci
entrare insieme”.
Lucia: “Noi andiamo alla basilica per riportare in
città i tre santi con gli altri ceraioli”.
Fiorì: “Andate, andate, io vi aspetto qui sulla via
del ritorno”.
Non
so per quanto tempo sono rimasto lì a recuperare le energie, so soltanto che ad
un tratto ho sentito il canto festoso dei ceraioli di S. Giorgio che tornavano
giù dal monte:
“Se ti dicono che siam morti, che siam
morti,
diie de no, diie de no;
se ti dicon che siam chiusi in una
tomba, in una tomba,
dje de no, dje de no;
con San Giorgio a suon di tromba,
ci richiama, ci richiama a guerreggiar:
Alé San Giorgio, alé San Giorgio”
Fiorì: “Com’è andata ragazzi?”
Ceraiolo “Siamo riusciti ad entrare nella Basilica insieme
a S. Ubaldo”.
Fiorì: “Incredibile, siete stati in gamba ragazzi. E
come avete fatto?”
Ceraiolo: “Siamo arrivati in fondo alla scalinata della
Basilica, ammanicchiati a S. Ubaldo: le stanghe del nostro cero sopra le
stanghe del loro. Quando hanno ribaltato il cero per farlo passare nel portone
della Basilica, anche noi abbiamo fatto presto e gli abbiamo messo il cero di S.
Giorgio sopra a quello di S. Ubaldo. Non ti dico niente, sono incominciate le
scazzottate, non volevano farci entrare insieme a loro. Ma dopo si sono rassegnati
e hanno portato il cero di S. Giorgio dentro la Basilica insieme al loro cero”.
Devo confessare che ho un rapporto personale ed intimo
con la Festa dei Ceri.
Alla metà del 1900 l’Umbria centrale era una landa
desolata, vi si svolgeva solo attività agricola con modalità arcaiche e non
ancora meccanizzata; gli uomini di Gubbio, Gualdo Tadino e Nocera Umbra, per
trovare lavoro emigrarono in Lussemburgo, Belgio e Francia. La stessa scelta
fecero i miei genitori, mio padre ebbe il lavoro in una fonderia in Francia, a
Villerupt ove io nacqui.
Tornammo in Italia che avevo l’età di cinque anni. Perdendo
in un sol colpo tutta quella che era stata la mia vita fino ad allora: gli
amici, la mia scuola ed i miei giocattoli, ero molto amareggiato. Mia madre,
nel vedermi in quella condizione, cercava di rincuorarmi:
“Fiorì, vedrai che tra qualche giorno ci sarà una
festa bellissima a Gubbio”.
Al ché rispondevo inconsolabile: “Di quella festa, a
me non me ne importa niente, mamma”.
“Vedrai, vedrai, l’Italia è più bella della Francia”.
Forse anche per questo, al mattino di ogni 15 di maggio, quando in Piazza Grande
a Gubbio sento il suono squillante e gioioso delle chiarine che annunziano
l’inizio della Festa dei Ceri, seguito dai rintocchi vibranti del campanone del
Palazzo dei Consoli, ripensando a quegli anni ormai lontani, immancabilmente mi
commuovo.
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